Il Dolore
Spesso le persone si rivolgono a un terapeuta solo quando soffrono di qualcosa o hanno una dolore specifico. Di
rado succede che si rivolgano ad uno specialista solo per migliorare la loro situazione di benessere!
Il dolore è una percezione sensoriale cosciente, come l’olfatto e l’udito, complessa e differenziata (di fatto può risultare pungente, tirante, bruciante). Esso dipende da elementi somatici,
psichici e socio culturali a partire dagli stimoli interni ed esterni rispetto all’organismo. La fisiologia del dolore è correlata con la fisiologia dei sensi. Il dolore, pertanto, è un sintomo
vitale/esistenziale, un sistema di difesa nelle sue forme acute che può diventare malattia nei dolori cronici. Sul piano fisiologico, il dolore non è controllato solo dal sistema nervoso ma anche
dalla matrice tessutale (normale/fisiologico) e dai sistemi ormonali ed immunitari a livello somatico, nonché da aspetti psichici e sociali,E' quindi importante ricordare che nella sensazione di
dolore sono fondamentali due strutture:
la corteccia cerebrale per la percezione cosciente
il Sistema Limbico per la percezione emotiva incosciente.
Il Sistema Limbico è un insieme di strutture complesse che circondano il tronco cerebellare.
Le strutture più importanti per l'elaborazione dei segnali dolorosi sono:
l'ipocampo, che ha un ruolo centrale nella formazione e nell'elaborazione dei ricordi
l'ipotalamo, che controlla fra l'altro l'ipofisi e quindi lo stato ormonale dell'organismo l'amigdala, che stabilizza l'umore e regola l'aggressività ed il comportamento sociale.
La proiezione di segnali nocicettivi nel Sistema Limbico è la base per l'effetto che ha il dolore sullo stato d'animo (il dolore rende irrequieti e tristi); tuttavia il sistema Limbico determina anche la modalità individuale della percezione emotiva: chi è euforico o sotto shock non sente dolore, mentre chi è ipocondriaco o ansioso, sente in modo accentuato anche i minimi dolori.
Tuttavia il sistema Limbico determina anche la modalità individuale della percezione emotiva: chi è euforico o sotto shock non sente dolore, mentre chi è ipocondriaco o ansioso, sente in modo accentuato anche i minimi dolori. Una esperienza emotiva molto forte può generare il dolore psicologico. Esempio: perdita o separazione da una realtà (persona, lavoro, salute, ambiente), può causare una emozione così elevata da segnare un canale sensibile che si riattiva in ogni occasione di esperienze di identica natura. Come già evidenziato nel dolore fisico, le emozioni coinvolgono il sistema limbico del cervello che ci consentono di esperimentare diversi tipi di emozioni, per esempio: rabbia, paura, desiderio sessuale, piacere e dolore. Per causare le normali espressioni delle emozioni devono funzionare anche altre parti della corteccia senza l’influenza delle quali possono esserci delle reazioni anormali ed incontrollabili. Nel dolore psicologico acuto è presente una reazione fisiologica di tipo sia simpatico che parasimpatico: aumento ritmo cardiaco, svenimenti, sudorazione, pianto, contrazioni muscolari, variazione veglia sonno, fame inappetenza, etc… Qualora il dolore psicologico resti a livello non cosciente e quindi non elaborato, ci possono essere delle sovrapposizioni a livello psicosomatico, che nel tempo lasciano segni evidenti nella struttura fisica e comportamentale della persona come ad esempio: dolori alla schiena, pesantezza alle gambe, problema nella deglutizione (nodo alla gola), dolori di testa, etc. spossatezza, irrequietezza, insonnia, isolamento, etc. In questa situazione si rischia spesso di dimenticare il dolore psicologico tanto da viverlo ad un livello secondario, prendendo in considerazione esclusivamente il dolore fisico, che potrebbe avere il sopravvento. Le emozioni troppo dolorose ed escluse dalla consapevolezza con qualche modalità difensiva, sono nella vita come dei debiti non pagati da cui le persone si scollegano cercando di non sentire il dolore o stando male in modo superficiale ed irrazionale (depressione, senso di colpa, senso di oppressione, reazioni psicosomatiche etc.). Il dolore, pur costituendo uno dei “colori” fondamentali dell’esperienza umana è una emozione “scomoda” che non si impara ad affrontare fin dall’infanzia e si continua ad evitare anche da adulti. L’esperienza e l’espressione autentica del dolore psicologico non rientra nel modo in cui normalmente le persone affrontano la loro esistenza. Il dolore nella sua espressione immediata, semplice e non difensiva è riconducibile all’espressione “vorrei, ma non è possibile” (stare con la persona amata, vivere una certa realtà etc.). Nel dolore non c’è “tensione” come nella rabbia, o “allarme” come nella paura, ma una semplice adesione morbida, limpida alla realtà che si traduce in uno stato fisiologico e psicologico di resa. Sul piano interiore la tristezza è una emozione adattiva perché permette all’individuo di abituarsi ad una situazione non voluta, ma immodificabile. Se il dolore è intenso si esprime nel pianto e il pianto aiuta la persona a sentire e a manifestare il senso di mancanza per ciò che è desiderato o sentito come necessario. Nel dolore come nel piacere non c’è attivazione fisiologica o psicologica perché non c’è né timore né speranza. Nella gioia non speriamo perché abbiamo ciò che vogliamo, nel dolore non speriamo perché “di-speratamente” accettiamo una mancanza. Perché le persone si creano sofferenze atroci e anche stupide per evitare una sofferenza autentica che costituisce una componente della esistenza umana? La risposta ragionevole è che le persone sviluppano gradualmente l’autocoscienza e le varie risorse psicologiche adulte: fino a quando la maturazione individuale non è completa, i “cuccioli umani” non sanno elaborare il dolore. E’ attraverso l’appoggio psicologico dato dai genitori durante il periodo di crescita che la persona ha modo di fare l’esperienza del dolore psicologico vissuto in modo naturale. Ad esempio, fra le braccia della mamma che conferma che la nonna è morta, che era tanto cara, che manca tanto, che non c’è più, ma è stata tanto amorevole e che è dolorosamente e definitivamente assente, il bambino può sciogliersi nel pianto come necessità fisica dell’espressione emotiva, lasciarsi attraversare dai singhiozzo, sentire il dolore e gradualmente superare quel dolore, scoprendo che quella lacuna nel suo mondo lascia comunque integro, significativo e apprezzabile ciò che resta. Così si abitua a riconoscere la sua esistenza come SUA e SIGNIFICATIVA nonostante l’assenza della persona ritenuta integrante nella sua vita. Un dolore per ciò che è perso o non può essere ottenuto, resta tale ma viene percepito con minore intensità perché è divenuto sfondo anziché figura. Se lasciati soli invece i bambini (come anche gli adulti) sfiorano il dolore e lo classificano come intollerabile prima di prenderne le distanze difensitivamente. Le difese attuate rispetto al dolore restano come dei macigni posati in mezzo alla strada della vita, che possono essere rimossi nel momento in cui si attua un cambiamento consapevole che porta a favorire la scoperta di risorse già disponibili, ma non utilizzate, per consentire la gestione del dolore .
In questo contesto, non possiamo escludere il concetto di polarità che rappresenta il problema centrale della nostra esistenza.
La nostra attuale coscienza divide e spacca tutto in coppie di opposti.
La nostra intelligenza non fa altro che dividere costantemente la realtà in unità sempre più piccole e distinguere tra queste unità.
Diciamo "sì" a uno e contemporaneamente "no" al suo opposto. Però con ogni "no" inevitabilmente cementiamo il nostro malessere, perché per stare bene non dovremmo mancare di nulla. La nostra visione polare, ci oscura la visione dell'unità che abbraccia tutti gli opposti ancora non separati.
La polarità fa sì che siamo incapaci di considerare contemporaneamente i due aspetti di un'unità e costringe la nostra conoscenza a muoversi seguendo una successione da cui nascono i fenomeni del ritmo, del tempo e dello spazio. Per esempio, nel respiro, l'inspirazione deriva dall'espirazione e senza il suo opposto non potrebbe esistere; se uno si rifiuta di espirare non potrà poi nemmeno inspirare. Un polo non può esistere senza il suo opposto. Dietro alla polarità sta l'unità quell'uno che racchiude tutti gli opposti non separati. Questa dimensione viene chiamata anche Universo che per definizione comprende tutto per cui nulla può esistere senza questa unità.
Nell'unità non c'è mutamento, trasformazione, evoluzione perché l'unità non soggiace al tempo e allo spazio. L'unità/universo è in eterna pace è puro ESSERE, e si esprime senza tempo, senza spazio, senza mutamento, senza confini. Dal punto di vista della nostra coscienza polare l'unità appare quindi come nulla.
L'Ego dell'uomo vuole avere sempre qualcosa che è al di fuori di lui e non gli fa piacere venire a sapere che deve semplicemente perdersi per poter essere una cosa sola con il tutto . Nell'unità TUTTO e NULLA diventano una cosa sola il nulla rinuncia ad ogni manifestazione e sfugge quindi alla polarità.
L'Origine prima di tutto ciò che è, è il Nulla. E' l'unica cosa che esiste, senza inizio e senza fine di eternità in eternità. Nell'unità cessa ogni nostalgia, ogni volontà, ogni tensione, finisce ogni movimento perché non esiste più qualcosa di esterno verso cui si possa tendere. E' un vecchio paradosso: soltanto nel nulla si può trovare la pienezza.
Il tema "malattia/guarigione" rappresenta anch'esso un aspetto della polarità si deve superare questa condizione di malessere scandita dal tempo e far diventare la propria vita di nuovo SANA cioè INTERA. Ogni via di guarigione porta dalla polarità all'unità; attraverso questa nuova conoscenza si può sviluppare una nuova coscienza che cominci a modificare le piccole azioni nella vita quotidiana fino a raggiungere una pienezza di vita.
Non di meno possiamo considerare la psiche e il corpo aspetti differenti della stessa realtà; un corpo ammalato innescherà sempre anche disturbi psicologici e una mente perturbata alla fine darà sempre anche qualche disturbo fisico.
Pure il dolore e la sofferenza sono espressioni della stessa realtà; il dolore è ciò che ci capita addosso all'improvviso, la sofferenza è l'opera di riflessione e di ascolto di quello che il dolore compie dentro di noi, momento dopo momento. Mentre il dolore riguarda l'istante presente, la sofferenza proprio perché è riflessiva, si espande sul passato e sul futuro unificando in un solo atto l'intera nostra esistenza.
Da tali presupposti, appare evidente che, in qualsiasi situazione di malessere, occorre considerare l'uomo nella sua interezza; non è possibile risolvere le sofferenze o guarire i dolori solo somministrando farmaci o rimedi, cercando cioè di riequilibrare chimicamente uno squilibrio organico o mentale ma, necessariamente, si debbono considerare tutte le dimensioni della persona. Occorre ritornare a curare maggiormente lo stile di vita, la relazione che l'uomo ha con l'ambiente in cui vive, e ritornare a risvegliare quella parte profonda di sé che conosce i veri bisogni facendo si che si concretizzino...
Possiamo prendere come esempio, l'alimentazione :la conoscenza e la coscienza di cosa mangiare per trarre da ogni alimento le sostanze necessarie ed indispensabili per un corpo efficiente, sano equilibrato, porterebbe l'attuale visione del cibo, visto solo come appetitoso ed appagante, ad una forma più completa.
Questo discorso vale anche per i ritmi, le abitudini, l'attività fisica, la comunicazione interpersonale, i sentimenti, la relazione con la natura, lo sviluppo della propria dimensione creativa e spirituale; occorre affrontarli dando loro una valenza di rispetto, precisione e presenza per migliorare la qualità della vita umana e renderla più evoluta.
Il dolore è un sintomo vitale/esistenziale di difesa, possiamo pensare che la causa sia originata da un mancato equilibrio e armonia non solo del corpo ma anche di un livello più profondo di noi stessi.
Non avremo disturbi "casuali" "senza" "perché", ma saranno espressione in ultima analisi di aspetti repressi, temuti o accantonati della propria vita: non dobbiamo quindi limitarci a combatterli ma occorre prima di tutto capirli.
Il concetto base è che il corpo in sé non è ammalato o sano ma in lui si esprimono semplicemente le informazioni della coscienza, della psiche le quali vogliono far notare una loro necessità, un loro bisogno, e lo rivelano attraverso di esso che diviene così il modo e il livello di espressione della coscienza e della psiche (la medicina psicosomatica lavora da tempo su queste basi).
Capire più profondamente noi stessi é favorire il proprio cammino evolutivo. Questo processo inizia solo dentro di noi.
Ognuno di noi è coinvolto in prima persona nel suo processo di guarigione, diventandone partecipe e responsabile.
Tratto da:
http://risorse-psicoterapia.org/funzionamento_psicologico_adulto_difese.htm
Suicidio...Visione Tunnel
Il suicidio non dovrebbe essere considerato un movimento di avvicinamento alla morte bensì il tentativo estremo di allontanarsi da un dolore psicologico divenuto insopportabile. Se tale dolore potesse essere alleviato quei soggetti testimonierebbero la loro voglia di VIVERE.
Nella maggior parte dei casi le persone che hanno tentato il suicidio dicono che hanno sopportato una sofferenza psicologica per molto tempo e alla fine hanno scelto il suicidio come possibile soluzione ai loro problemi.
Affrontare le difficolta' e i dolori della vita fa parte della nostra natura ma esiste una soglia di tolleranza del dolore psicologico del tutto individuale e che alcune caratteristiche di personalita' possono aumentarne o diminuirne la sopportabilita'. Nei soggetti che si suicidano sembra esistere una maggiore vulnerabilita' al dolore psicologico, che unito a molti altri fattori, conduce quell'individuo a cercare la morte.
Possono esistere due dimensioni separate che si intersecano: quella della depressione e quella della suicidalita'. Quest'ultima caratterizzata dal dolore mentale insopportabile e dalla visione tunnel, ossia il poter vedere solo in una sola direzione e mai altre opzioni a disposizione.
Esiste molta ignoranza sul suicidio. Non solo la gente comune ma molti operatori della salute spesso si riferiscono all'argomento con termini e modalita' improprie. Un falso mito sul suicidio riguarda il fatto che le persone che commettono il suicidio raramente ne parlino. Queste persone invece danno spesso dei segnali verbali della loro intenzione. Ci sono studi che riportano che almeno 2/3 degli individui suicidi avevano espresso precedentemente la loro intenzione. Secondo una visione superficiale, le persone suicide sono determinate a morire. In realta', molte persone sono indecise sul vivere o sul morire, e "scommettono" con la morte, lasciando agli altri il compito di salvarli. Quasi nessuno commette il suicidio senza lasciar sapere agli altri come si sente. Secondo alcuni, una volta che una persona è suicida, lo è per sempre. Gli individui che vogliono uccidersi sono invece "suicidi" solo per un periodo limitato di tempo. Da smentire e' anche il fatto secondo cui, il miglioramento successivo ad una crisi di suicidio significa che il rischio di suicidio è terminato. Molti suicidi avvengono nell'ambito dei tre mesi che seguono l'inizio del "miglioramento" quando l'individuo ha l'energia sufficiente per mettere in atto i suoi pensieri. Ci sono coloro che sostengono che il suicidio colpisce molto di più i ricchi, o all'opposto si verifica quasi esclusivamente tra i poveri. Invece, il suicidio non riguarda da vicino nè il ricco nè il povero. Il suicidio è molto "democratico" ed è rappresentato proporzionalmente in tutti i livelli della societá.
Da sfatare e' anche la convizione che la persona suicida voleva morire e ritieneva che non ci sia modo di tornare indietro. Molto piu' esatto e' che la persona suicida spesso si sente ambivalente sul voler morire e sul vivere, come se volesse entrambi le opzioni.
Secondo le stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanita' ogni anno nel mondo, circa un milione di individui muore a causa del suicidio, il che equivale a dire che si realizza un suicidio ogni 40 secondi e con dati meno certi un tentativo di suicidio ogni 3 secondi.
Non vi e' dubbio che queste cifre siano nettamente superiori alle vittime di catastrofi, dalloTsunami alle Torri Gemelle a New York, oppure a tutte le vittime per conflitti bellici che ogni anno purtroppo si verificano.
Il 10 settembre di ogni anno si celebra la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio coordinata dall'International Association for Suicide Prevention al fine di sensibilizzare sulla necessità di arginare il fenomeno suicidario. Il suicidio si può prevenire e la miseria umana puo' essere compresa. A noi spetta il compito di cimentarci con le emozioni negative degli individui suicidi e di come trovare quel ponte immaginario che può condurci alla vera comprensione del loro dramma interiore.
Chi desidera morire dovrebbe essere soccorso con interventi adeguati. E' fondamentale ascoltare attentamente e con calma; comprendere i sentimenti dell'altro con empatia; emettere segnali non verbali di accettazione e rispetto; esprimere rispetto per le opinioni e i valori della persona in crisi; parlare onestamente e con semplicità; esprimere la propria preoccupazione, l'accudimento e la solidarietà; concentrarsi sui sentimenti della persona in crisi. Esistono poi delle cose da non fare quando ci si confronta con il soggetto a rischio di suicidio, come interrompere troppo spesso; esprimere il proprio disagio; dare l'impressione di essere occupato e frettoloso; dare ordini; fare affermazioni intrusive o poco chiare; fare troppe domande.
Molti di fronte ad un suicida sentono di dover mostrare empatia senza tentare di inviare messaggi anti-suicidio. Non tenendo in conto che nonostante la visione tunnel la persona rimane aperta al mondo esterno, può ricevere messaggi anti-suicidio e il suo attaccamento alla vita che permane fino alla fine può essere alimentato; finchè e' in vita, si deve presumere che si abbia voglia di vivere.
Nel corso di una vita trascorsa a studiare il suicidio, Shneidman ha concluso che l‘ingrediente base del suicidio è il dolore mentale, egli chiama questo dolore insopportabile psychache, che significa “tormento nella psiche”. Shneidman suggerisce che le domande chiave che possono essere rivolte ad una persona che vuol commettere il suicidio sono “Dove senti dolore?” e “Come posso aiutarti?”. Se il ruolo del suicidio è quello di porre fine ad un insopportabile dolore mentale, allora il compito principale di colui che deve occuparsi di tale individuo è quello di alleviare questo dolore. Se infatti si ha successo in questo compito, quell’individuo che voleva morire sceglierá di vivere.
Il suicidio non emerge mai dal piacere, piuttosto e’ sempre legato a dispiaceri, vergogna, umiliazione, paura, terrore, sconfitte ed ansia; sono questi gli elementi del dolore mentale che conducono ad uno “stato perturbato”; L’individuo ha dunque necessita’ di porre fine ad un dolore psicologico divenuto insopportabile; il suicidio e’ la migliore ed unica soluzione per porre fine a quell’immenso dolore psicologico.
Shneidman inoltre considera che le fonti principali di dolore psicologico: vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, hanno origine nei bisogni psicologici frustrati e negati. Nell’individuo suicida è la frustrazione di questi bisogni e il dolore che da essa deriva, ad essere considerata una condizione insopportabile per la quale il suicidio è visto come il rimedio più adeguato. Ci sono bisogni psicologici con i quali l’individuo vive e che definiscono la sua personalitá e bisogni psicologici che quando sono frustrati inducono l’individuo a scegliere di morire. Potremmo dire che si tratta della frustrazione di bisogni vitali; questi bisogni psicologici includono il bisogno di raggiungere qualche obiettivo come affiliarsi ad un amico o ad un gruppo di persone, autonomia, opporsi a qualcosa, imporsi e il bisogno di essere accettati e compresi e il conforto. Shneidman ha proposto la seguente definizione del suicidio: “Attualmente nel mondo occidentale, il suicidio è un atto conscio di auto-annientamento, meglio definibile come uno stato di malessere generalizzato in un individuo bisognoso che alle prese con un problema, considera il suicidio come la migliore soluzione”. Shneidman ha inoltre suggerito che il suicidio è meglio comprensibile se considerato non come un movimento verso la morte ma come un movimento di allontanamento da qualcosa che è sempre lo stesso: emozioni intollerabili, dolore insopportabile o angoscia inaccettabile, in breve psychache. Se dunque si riesce a ridurre, ad intaccare e a rendere più accettabile il dolore psicologico quel soggetto sceglierà di vivere.
Nella concettualizzazione di Shneidman il suicidio è il risultato di un dialogo interiore; la mente passa in rassegna tutte le opzioni. Emerge il tema del suicidio e la mente lo rifiuta e continua la verifica delle opzioni. Trova il suicidio, lo rifiuta di nuovo; alla fine la mente accetta il suicidio come soluzione, lo pianifica, lo identifica come l’unica risposta, l’unica opzione disponibile.
L’individuo sperimenta uno stato di costrizione psicologica, una visione tunnel, un restringimento delle opzioni normalmente disponibili. Emerge il pensiero dicotomico, ossia il restringimento del range delle opzioni a due sole (veramente poche per un range): avere una soluzione specifica o totale (quasi magica) oppure la cessazione (suicidio). Il suicidio è meglio comprensibile non come desiderio per la morte, ma in termini di cessazione del flusso delle idee, come la completa cessazione del proprio stato di coscienza e dunque risoluzione del dolore psicologico insopportabile.
Bibliografia essenziale
Shneidman, E.S. (1993). Suicide as psychache. J Nerv Ment Dis 1993,181, 145-147.
Shneidman ES. Anodyne psychotherapy for suicide: a psychological view of suicide. Clin Neuropsychiatry 2005;2:7-12.
Shneidman ES. Autopsy of a suicidal mind (Tr. It: Autopsia di una mente suicida, Fioriti Editore, 2006). New York: Oxford University Press; 2004..
Shneidman E S .(1985). Definition of suicide. Northvale: Aronson; 1985.
Shneidman ES. The suicidal mind. New York, Oxford University Press, Inc; 1996.
11 Ottobre 2016